Sotto la lente lo smart-working e gli eventuali scenari futuri. Lavorare da casa per molti rappresenta un vantaggio in termini di miglioramento della qualità della vita anche a scapito di qualche “sforbiciata” allo stipendio e c’è chi ne approfitterebbe per trasferirsi in località lontane dal caos cittadino
Questo uno dei dati emersi dall’indagine Inapp/Plus “Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori”, realizzata su un campione di oltre 45mila interviste (dai 18 ai 74 anni) nel periodo marzo-luglio 2021
Attualmente oltre 7,2 milioni di occupati lavorano da remoto, il 61% di questi almeno 3 giorni a settimana
Durante la fase acuta della pandemia quasi 9 milioni di lavoratori hanno lavorato da remoto, trend che è continuato nel 2021 con un lavoro ibrido tra presenza e distanza. Nel 2021 il 32,5% degli occupati ha lavorato da remoto; il 39,7% dei lavoratori della PA e il 30,8 tra i privati.
Prima della pandemia 2.458.210 occupati (pari all’11%) lavoravano da remoto. Nel 2021 i lavoratori agili sono saliti a 7.262.999 (e la quota sul totale degli occupati è balzata al 32,5%). Il 46% dei lavoratori vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile almeno un giorno e quasi 1 su 4 tre o più giorni a settimana. È quanto emerge dal policy brief “Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori”, realizzato dall’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP) attraverso l’indagine Plus con un campione di oltre 45mila interviste (dai 18 ai 74 anni) nel periodo marzo-luglio 2021.
Guardando alla distribuzione dei giorni lavorati da remoto nel 2021, si osserva che quasi il 50% era impegnato in modalità agile da 3 a 5 giorni a settimana e solo l’11,6% per un solo giorno. Gran parte del lavoro da remoto si è realizzato su base fiduciaria: solo per il 16,5% è stato frutto di un accordo collettivo e per il 14,3% di un accordo individuale; per quasi il 37% dei lavoratori da remoto non c’è stata, invece, alcuna formalizzazione.
“Lo “smart working”, cioè quella profonda ristrutturazione dei processi produttivi alimentata dalle nuove tecnologie informatiche e digitali, contempla quote di attività lavorativa svolte al di fuori degli spazi fisici dell’azienda – ha affermato il prof. Sebastiano Fadda, presidente Inapp – Non sappiamo quale sia l’atteggiamento dei lavoratori verso tutti i molteplici aspetti che costituiscono la modalità dello “smart working”, ma sappiamo da questa indagine quale sia l’atteggiamento dei lavoratori nei confronti del lavoro “da remoto” così come è andato configurandosi sotto la frustata della pandemia. Nel complesso la valutazione dei lavoratori è positiva, anche se si manifestano alcune criticità in relazione ad alcuni aspetti, come ad esempio il problema della disconnessione e dei costi delle utenze domestiche. Da ciò si desume che esiste una base per passare dal semplice lavoro da remoto emergenziale a nuovi modelli di organizzazione del lavoro associati a innovative reingegnerizzazioni dei processi produttivi, ma che bisogna adoperarsi per risolvere le criticità”.
Molteplici sono state le modalità organizzative introdotte per agevolare e sostenere il lavoro da remoto. Sia nel pubblico (71,5%) che nel privato (64,4%) sono state attivate soprattutto piattaforme digitali per lo svolgimento delle riunioni a distanza; il 62,1% delle aziende private e il 41,9% della PA ha fornito dispositivi informatici ai lavoratori e alle lavoratrici. L’attivazione di protocolli di sicurezza informatica ha interessato oltre il 56% dei datori di lavoro. Inoltre, nel settore privato sono state messe in campo varie azioni volte, non solo a consentire lo svolgimento del lavoro agile nell’immediato, ma anche ad armonizzare le condizioni attuali con le prospettive future, investendo in formazione (46,8%), fornendo attrezzature ergonomiche (25,7%) ed erogando un contributo (22,2%) ai dipendenti.
In merito al tema del rischio di connessione continua il settore privato appare più virtuoso, con il 65% dei lavoratori del comparto che dichiara di poter scegliere in modo autonomo quando disconnettersi contro il 50,1% di quelli del pubblico. Per quanto attiene invece alla connessione any-time, a fronte di un dato complessivo del 32,8%, nel pubblico la quota scende al 26,9%, mentre nel privato sale al 34,5%. In merito alla possibilità di fare brevi pause, una quota particolarmente elevata (78,2%) non manifesta criticità, ma oltre il 49% dichiara di potersi disconnettere solo per la pausa pranzo.
Il lavoro agile, seppur realizzato in contesti organizzativi non preparati e con infrastrutture tecnologiche spesso inadeguate, è stata un’esperienza positiva. Il 55% dei lavoratori esprime un giudizio positivo sull’esperienza complessiva di lavoro da remoto, ma su alcune specifiche questioni le valutazioni sembrano evidenziare criticità: quasi il 64% ritiene che il lavoro da remoto generi isolamento e circa il 60% che non aiuti nei rapporti con i colleghi; in più, per oltre il 60% risulta problematico l’aumento dei costi delle utenze domestiche. Al contrario è decisamente positiva la valutazione sulla libertà di organizzare il lavoro e gestire gli impegni familiari. Oggi la metà delle professioni qualificate può erogare oltre il 50% della prestazione da remoto a fronte di un decimo delle professioni non qualificate. Questa segmentazione è frutto della natura della prestazione e di una cultura organizzativa che deve essere aggiornata alla luce dell’esperienza del lavoro agile.
“E’ evidente – ha proseguito Fadda – che possibilità e modalità di lavoro da remoto variano a seconda della configurazione che lo “smart working” può assumere nelle aziende di diversa dimensione, di diverso settore e di diversa “intensità tecnologica”; di conseguenza non ci possono essere modalità o percentuali fissate a priori. Occorre un quadro di regole-base e poi flessibilità per definire attraverso la contrattazione le modalità che meglio garantiscono la produttività delle aziende e il benessere dei lavoratori”.
Infine, qualora il lavoro agile entrasse a regime, si aprirebbero nuove prospettive sul futuro delle città e dei territori. Dallo studio emerge, infatti, che oltre 1/3 degli occupati si sposterebbe in un piccolo centro; 4 persone su 10 invece si trasferirebbero in un luogo isolato a contatto con la natura. Inoltre, pur di lavorare da remoto 1 lavoratore su 5 accetterebbe una eventuale penalizzazione nella retribuzione, segno che un ipotetico miglioramento nella qualità della vita presenta un valore aldilà di quello economico.